Un ex detenuto, schivo e senza amici, se tali non si considerano l’amico microonde e l’amica televisione, una sera rimane sconvolto dalla persona che vede muoversi nel suo apparecchio a colori, invitata all’interno di una trasmissione culturale:
“A parlare alla tv è la figlia della donna che ho massacrato trent’anni fa. È uno shock, e mi fa pure sentire vecchio”.
Si svela subito il tremendo trascorso del protagonista maschile de Il lavatoio, il romanzo di Sophie Daull appena pubblicato da Voland con la traduzione di Cristina Vezzaro. L’uomo ha assassinato una donna con ben quarantuno coltellate: una mattanza.
L’ergastolo cui è stato condannato ha usufruito di tutti i benefici di legge e perciò è stato ridotto ai diciotto anni obbligatori. Una pena esaurita molto prima rispetto a quella cui è stata condannata la figlia della donna che l’uomo ha ucciso. È lei la seconda protagonista del romanzo:
“Anch’io sono stata condannata all’ergastolo. In una cloaca di dolore putrido, di amnesia forzata, di confusa rimozione che ha finito per prosciugarsi, discretamente nauseabonda. Ma dopo trent’anni passati in questo sarcofago perfetto, la crosta prude, la piaga riparla. Trasuda un qualcosa che va lavato con acqua abbondante”.
Sono due le voci, diverse anche nel lessico utilizzato, che si alternano nel volume di Sophie Daull, una storia dolorosa e per larga parte autobiografica, raccontata dal principio e per tutti i lunghi anni venuti dopo l’orrendo delitto fino a un incontro, quello cui sono inevitabilmente destinati i due protagonisti de Il lavatoio, con la presentazione del libro della donna nella cittadina in cui oggi lavora l’uomo che le ha strappato la madre.
“Ci siamo. Ecco qua. Stavolta non puoi più sfuggire.”
Sophie Daull, vincitrice con questo romanzo del Premio dell’Unione Europea per la letteratura, è brava a raccontare senza retorica un dolore tanto intimo quanto vivo, a mescolare le due voci narranti, interrogandosi e lasciando riflettere il lettore sul senso del perdono e del pentimento.