I cinocefali | Aleksej Ivanov
- 23 Gennaio 2021
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Può un antico affresco segnare i destini di un villaggio? È la Russia più arcaica e derelitta quella protagonista de I cinocefali, l’ultimo romanzo, edito Voland, del premiato scrittore russo Aleksej Ivanov.
Il romanzo si svela un thriller dal ritmo ondeggiante fin dalle prime pagine quando si presentano i protagonisti della storia: sono tre giovani moscoviti, Kirill, Valerij e Guger, diretti al villaggio di Kalitino, un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini dove i pochi residenti vivono di espedienti più o meno legali, con l’imperitura nostalgia del periodo sovietico (financo del suo sistema penale) e con livore implacabile verso i cittadini che, a loro modo di vedere, li hanno depredati di tutto.
“Qui non abbiamo tempo per le favole, porca troia. Qui non c’è niente. Qui non ci inventiamo favole, qui sgobbiamo per voi, moscoviti del cazzo. Vi siete mangiati tutta la Russia, porca puttana.”
Cosa ci fanno i tre nel quasi disabitato sobborgo sul Volga? Circondati da cave di torba, in cui i galli, sotto un “cielo viola tossico”, cantano quando gli pare e dove le violenze e le vessazioni tra i residenti si consumano nella totale indifferenza degli stessi?
I giovani si sono recati a Kalitino per recuperare un raro affresco dalla chiesetta del villaggio. A spedirli in quell’angolo sperduto della sconfinata federazione russa, una fondazione foraggiata dall’UNESCO e da privati che si occupa della salvaguardia di beni culturali poco conosciuti. Questo però è soltanto il secondo scopo della fondazione: il primo, quello per il quale hanno selezionato i tre ragazzi (e non degli esperti restauratori), è conoscere le ripercussioni che la rimozione dell’opera avrà sulla società, come questa reagirà al suo allontanamento, se le norme comportamentali dello sparuto numero di abitanti del villaggio sul Volga muteranno.
La strana missione prende forma quando i tre uomini si imbattono nell’affresco raffigurante un cinocefalo, una creatura per metà umana e per metà animale, busto protetto da una corazza, in una mano una croce ortodossa russa e nell’altra una lancia appuntita.
La parte che però inquieta i giovani uomini è la testa della creatura:
“Di un fulvo scuro, pelosa, con le orecchie a punta, da animale. Kirill non l’avrebbe definita una testa di cane. Era uno strano incrocio tra un luccio e un formichiere, un ibrido assurdo e ingenuo e perciò particolarmente convincente”.
È l’antica raffigurazione di san Cristoforo, il santo degli scismatici.
Per capire meglio cosa lega questa strana figura alla cultura ortodossa russa, bisogna sapere che in epoca bizantina san Cristoforo era usualmente raffigurato con una testa canina e che la leggenda narra che in vita, il santo, fosse stato proprio una bestia poi convertitasi al Cristianesimo. L’iconografia del cinocefalo fu prima contrastata dal patriarca Nikon (seconda metà del Seicento) per poi essere cancellata con il Sacro Sinodo del 1722. In molti, però, continuarono a venerare il particolarissimo santo. Nonostante la maggior parte delle icone e degli affreschi con il santo metà uomo metà bestia siano andate distrutte, alcune di esse si sono conservate e sono arrivate ai giorni nostri come l’icona di san Cristoforo cinocefalo visitabile nella Cattedrale dell’Arcangelo Michele di Mosca e quella conservata al Museo bizantino e cristiano di Atene.
Dal momento della scoperta del cinocefalo, lo “sbirro” che si nasconde nelle paludi di torba, i protagonisti del romanzo saranno ossessionati da quella presenza oscura, sulla quale i derelitti abitanti di Kalitino, col terrore negli occhi, racconteranno sempre più misteriose storie, dai tempi della Rivoluzione d’ottobre alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, epoche dalle quali la Russia del XXI secolo pare non essersi mai staccata.
Nei Cinocefali (Voland) si ritrova la Russia arcaica, quella degli sperduti villaggi di campagna, lontani dai maestosi monumenti e dalle luccicanti cupole a cipolla di Mosca e San Pietroburgo; la Russia abbandonata, dove la criminalità sembra essere l’unica via possibile e in cui la vita è regolata da antiche credenze e foschi costumi. Il romanzo però è soprattutto una storia in bilico tra orrore e thriller, perfettamente dosati da Aleksej Ivanov.
“Era in piedi, ad ascoltare, senza sapere cosa avrebbe dovuto sentire. Gli sembrò che fosse sceso il silenzio. Poi dal silenzio emersero i rumori di una casa di legno che stava morendo. Il ramo del pioppo grattò sommesso contro l’eternit. Qualcosa sospirò a lungo, e si afflosciò. Il vetro sussultò quasi impercettibilmente nell’infisso. Sentì schioccare l’intonato screpolato, scorrere un ruscello di sabbia. Uno scricchiolio. Un gemito quasi indistinto. Un fruscio.”
Senza avventurarsi in mastodontici paragoni – ché i Cechov, i Dostoevskij e i Tolstoj (in rigoroso ordine alfabetico) sono lassù e, una volta guadagnata la posizione di governo, hanno tagliato le corde della scaletta per raggiungerli – possiamo dire a gran voce che con I cinocefali Aleksej Ivanov – che speriamo sia concorde con questo nostro pensiero – ha rinvigorito con metodi moderni la lucente tradizione russa del romanzo.
In un crescendo di suspense, l’autore si rivela maestro nel fare immergere il lettore nelle ansie, nelle suggestioni, nelle paure senza nome, e per questo autentiche, dei giovani protagonisti de I cinocefali.
Aleksej Ivanov, vincitore in patria dei premi più eminenti come il Book of the Year e il Premio Tolstoj, regala così al lettore “un tranquillo weekend di paura” a Kalitino.