Lazzari e scugnizzi di Napoli | Basile, Morea
- 25 Giugno 2020
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Dalla Treccani: Scugnizzo, singolare maschile, voce napoletana che si ritiene derivante da scugnare «scalfire, rompere», dal latino cuneo. Monello napoletano, con le sue caratteristiche di ragazzo astuto e intelligente, vivace, disposto ad arrangiarsi con espedienti anche scarsamente onesti.
Ma non ci sono più gli scugnizzi di una volta. In quattro secoli di storia, dal Seicento, tanto è cambiato, soprattutto negli ultimi cinquant'anni. A ventitré anni dalla prima edizione di un lavoro sui “figli del popolo napoletano”, la casa editrice romana Newton Compton ha chiesto alle giornaliste-scrittrici Luisa Basile e Delia Morea di aggiornare la loro ricerca di fine Novecento sulle “furbe leggende le tristi verità dell'infanzia napoletana nella storia”. Lavorando alla nuova edizione arricchita è aggiornata (“Lazzari e scugnizzi di Napoli”, Newton Compton Editori 2019, 278 pagine, 10 euro il cartaceo, 5,99 il digitale), le due autrici si sono accorte che qualcosa è molto mutato, che la patina di romanticismo guascone che accompagnava queste figure non caratterizza più l'attuale generazione socialmente insidiosa della gioventù partenopea, quasi tutta contigua alla camorra.
Per tutti, scugnizzi e lazzari sono sinonimi che nell'immaginario collettivo rappresentano il ragazzino napoletano per definizione. Scugnizzi, in particolare, ha sempre avuto un suono accattivante, ha mosso simpatia istintiva, almeno fino all'avvento delle Paranza dei bambini dell'odierna mala partenopea. Le stesse autrici tengono a sottolineare che non è più realistica l'immagine di giovanissimi napoletani visti come ragazzetti scanzonati, spesso sfruttati e qualche volta eroici. La storia li ha raccontati in questo modo per secoli, ma quei caratteri sono stati cancellati “da nuove ricchezze, nuovi e veloci codici di vita”. Un modo elegante per dire che si sono guastati, oggi che la guapparia è prepotenza criminale e non giustifica il minimo accenno di simpatia.
Basile e Morea dividono i ragazzi napoletani contemporanei in due grandi categorie. Da una parte quelli operosi, che si impegnano in qualche lavoretto per aiutare la famiglia. Dall'altra, i componenti delle baby gang che cercano di dimostrare fin da piccoli un'attitudine criminale, per farsi notare e affiliare dai clan. Maneggiano armi, si dedicano a un bullismo delinquenziale che ha un pesante impatto in città, “fanno le stese” (correndo sulle moto, senza casco, sparano per divertimento ad altezza d'uomo per costringere i passanti a gettarsi a terra). Sono figli di famiglie già compromesse con la legge e ad alto tasso malavitoso. Per loro, la devianza è quasi inevitabile, è un modo di vivere.
E dire che l'introduzione dell'edizione 1996 celebrava “Napoli, terra di liberi”, che seppe opporsi ai francesi, agli spagnoli e ai tedeschi nelle quattro Giornate di fine settembre 1943. Ma scugnizzo non è più Gennaro Capuozzo, il dodicenne medaglia d'oro al valor militare ucciso mentre sfidava i carri armati. Oggi, non si pensa più a Gennarino che affrontava i panzer a mani nude, ma tornano in mente le riprese amatoriali che mostrano un piccolo di 8 anni impugnare una pistola che gli hanno messo in mano.
Comunque, quando si parla di lazzari e scugnizzi si fa riferimento alla parte più povera del popolo napoletano. Nel 1500 e 1600, la crescita della capitale del Sud spinse all'inurbamento dalle campagne esterne. In città, però, non c'erano per tutti le condizioni minime per vivere dignitosamente: l'aumento impressionante da 100mila ad oltre 400mila abitanti favorì una grande concentrazione di poveri. La plebe partenopea si ripartì in tre livelli. Sopra, un proletariato clientelare costituito dai popolani che servivano nelle case dei ricchi come camerieri, cuochi, cocchieri&230;; in mezzo, quelli che esercitavano un mestiere: artigiani, commessi, manovali&230;; sotto, rimasero gli addetti ai lavori umili e saltuari, oltre ai miserabili che campavano di carità, cenciosi, malati, sprovvisti di tutto. Questa terza sottospecie del popolo napoletano minuto costituiva i lazzari, nei secoli XV e XVII e tra loro i rappresentanti di spicco sono sempre stati i ragazzi, vivaci, chiassosi, irresistibili, a modo loro anche intelligenti ma di frequente violenti.
Abituati ad affrontare la fame e la miseria con le mille risorse dell'arte sfrontata di arrangiarsi, erano sempre pronti alla rivolta, a sostituirsi alle autorità per mantenere l'ordine, a fare barricate per cacciare gli invasori. Allegri e scatenati quando si trattava di fare ammuina per rompere la monotonia, erano pronti a seguire la bandiera del più forte e incuranti di piegare verso il ladrocinio. Trasformavano la vita in una festa interminabile, anche nei momenti di tensione collettiva o di dramma.
È un ritratto perfetto dei giovani “tinti di volto”, che seguirono Masaniello nella rivolta del 1647 contro le gabelle del vicerè spagnolo. Ed anche dei “lazzaroni” che si associarono all'esercito sanfedista del cardinale Ruffo e fecero letteralmente a pezzi (in qualche caso fino ad eccessi di cannibalismo) i francesi di Bonaparte e i giacobini meridionali, nella spietata repressione della Repubblica Napoletana del 1799.
Da seguire con attenzione l'evoluzione storica che porterà i guagliuni, la parte più giovane della società, a diventare scugnizzi nel XVIII-XIX secolo. Secondo le autrici resta incerta l'etimologia, che pure viene affrontata con attenzione.
Tanti i motivi d'interesse in un lavoro che si sforza di seguire lazzari e scugnizzi nelle varie epoche, con i fenomeni che li hanno contraddistinti. Impossibile sottrarsi alla suggestione di citare la definizione di Napoli riscoperta da Benedetto Croce in testi del Seicento ed erroneamente attribuita di solito a Goethe (che deve averla condivisa, visitandola nel suo Grand Tour): “un paradiso abitato da diavoli”.