Pacifico | Stéphanie Hochet
- 12 Maggio 2021
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È il conflitto interiore di un sakura il protagonista di Pacifico, l’ultimo romanzo di Stéphanie Hochet appena pubblicato da Voland Edizioni.
Aprile del 1945. La Seconda guerra mondiale si avvia alla conclusione: è il mese in cui muoiono, rispettivamente ucciso e suicida, Benito Mussolini e Adolf Hitler, tra i principali artefici del sanguinoso conflitto. I soldati dell’Unione Sovietica entrano in una Berlino distrutta e il sergente Aleksej Kovalëv dal tetto del Palazzo del Reichstag si prepara a entrare nella storia con la sua bandiera rossa marchiata con falce e martello; sulla scena bellica sono rimasti di fatto soltanto gli Stati Uniti d’America e l’impero del Giappone, ultimo, malridotto e disperato baluardo di quell’Asse – negli anni quaranta, per noi, Roberto non era soltanto un bel nome maschile – ormai ridotta in macerie dalle forze Alleate.
Lo sanno tutti che oramai anche per il Giappone la guerra è perduta: lo sanno i generali, lo sanno le truppe e i marines imperiali, lo sanno anche i sakura, i cosiddetti fiori di ciliegio, piloti volontari chiamati a schiantarsi coi loro elicotteri imbottiti di esplosivo contro le navi a stelle e strisce. Suicidi professionisti che, come il fiore simbolo del Giappone, l’impero vuole che svaniscano all’apice della loro giovinezza, splendida ed effimera.
E proprio un fiore di ciliegio è il protagonista di Pacifico, l’ultimo romanzo della scrittrice francese Stéphanie Hochet appena pubblicato da Voland Edizioni.
Si chiama Kaneda Isao e il suo solo e ultimo compito è quello di farsi esplodere contro un incrociatore americano che avanza nel Pacifico.
Sono le prime luci della sanguinosissima Battaglia di Okinawa, l’ultimo scontro prima della soluzione finale, quella che porterà i democratici Stati Uniti a sganciare le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e a porre tragicamente fine alla guerra.
Il romanzo di Stéphanie Hochet, tradotto da Roberto Lana, è incentrato sui pensieri del giovane Kaneda Isao, anch’egli consapevole dell’inutilità del suo gesto, di quanto la sua morte non possa cambiare le sorti oramai segnate del suo Paese. Kaneda, però, è estremamente combattuto: per il soldato nipponico non esiste umiliazione più vergognosa della resa ed è meglio morire anziché cedere il passo al nemico. Non è un americano, che diversamente teme la morte ed è ignaro di cosa possa essere “l’onore di morire per un impero millenario”. Kaneda Isao lo sa bene invece; si è formato sotto il codice d’onore dei samurai e per lui è proprio una questione morale, d’orgoglio patriottico, quella di immolare la propria vita per l’impero del Sol levante. Un “destino invidiabile” al quale nessun soldato degno di rappresentare la sua nazione può pensare di sottrarsi.
“A ventun anni ho l’onore di accettare di morire per l’Impero del Grande Giappone. Soffoco la vertigine che mi assale.”
Dopo l’avvio sincopato, che ricorda più le pagine di un diario, nella seconda parte di Pacifico il protagonista pensa alla sua infanzia, alla rigida formazione ricevuta, alla nonna orgogliosa del suo percorso indirizzato al suicidio per la nazione; Kaneda pensa alla morte e quindi alla vita, svelando un animo gentile e poetico. Pensieri contorti gli affollano la testa: sa che il suo destino non può che essere quello, ma pensa, nelle notti lacrimose che precedono l’azione, a come potrebbe essere se dovesse in qualche modo superare indenne quella prova, uscire vivo da quella guerra che non sembra finire mai.
Il finale inatteso porterà il protagonista ad aprire gli occhi sulle crudeltà che si consumano in guerra, ma quando se ne renderà conto, si accorgerà che il suo tempo, oramai, è passato. L’opera di Stéphanie Hochet è intensa, gradevole e storicamente corretta e obiettiva: Pacifico è un romanzo che si consuma tutta d’un fiato come la vita di un fiore di ciliegio.