TERESA SULLA LUNA |ERRICO BUONANNO
- 31 Maggio 2020
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Da bambina adoravo ascoltare le storie di zia Domitilla. Ho sempre avuto una passione per lei: un po’ perché aveva il nome delle catacombe omonime, un po’ per quei suoi capelli d’altri tempi che sembravano zucchero filato, un po’ perché aveva la capacità di trasformare le storie di antenati lontani (esisti o meno poco importava) in mitologia di ispirazione salgariana.
Ogni sua storia, pronunciata dalle sue labbra, aveva la parvenza di verità assoluta e inoppugnabile. E poco importava se i protagonisti fossero principi e principesse, imperatori e regine, quello che importava è che nel lungo viaggio verso la Serenissima Repubblica si fermavano sempre e certamente nella casa dei miei bisnonni lungo il Brenta e, ritrovata la tranquillità di una vita semplice, confessavano a lei dubbi e perplessità sul governare.
Forse è per questo che da subito Teresa Piserchia, nata a Matera e cresciuta a Roma di lontane origini albanesi, occhi verdi, naso importante, erre moscia l’ho subito sentita una di famiglia.
Chi è Teresa Pisechia? È la protagonista, per sua malcelata volontà, de “TERESA SULLA LUNA” ultimo romanzo di Errico Buonanno edito Solferino (2019).
Teresa è una donna che non vive di mezze misure. La sua vita giovanile tra cipria e acqua di colonia, l’ha resa radicata nella realtà più di chiunque altro nella famiglia Piserchia. Anche e soprattutto in quella del suo adorato nipote che la odia amabilmente.
Come si può non odiare una vita come quella di Teresa. Sempre un passo avanti agli altri. Lei dava del tu a Sigmund Freud a Enrico Fermi. Ha fatto perdere la testa a Moravia ad Amedeo Nazzari. Nelle sue vene, poi, scorreva (e scorre) “pura musica” tanto da essere stata Musa assoluta del Jazz tra New York e Parigi. Teresa Piserchia, senza alcun dubbio, è stata baluardo salvifico per l’intero mondo da fine dopo guerra fino ai oggi.
Quel tempo è passato (anche se torna a sprazzi nei suoi racconti) e Teresa, ora Nonna, è senza un dubbio il capo saldo della sua famiglia. Faro del nipote abbagliato e vittima di questo suo essere spumeggiante di vita e vitalità. A tal punto ammagliato da convincersi a reinterpretare una piccola parte nella recita scolastica di fine anno, con la risultanza nell'ordine: di perdere il piccolo e primo amore, di prendersi richiamo e rimprovero dall'insegnante (tacciata da Teresa come incompetente analfabeta di teatro, il vero teatro) di aggiudicarsi un voto scolastico negativo.
Un evento, questo, che si rivelerà traumatico per il piccolo protetto di Teresa che inizierà, non solo, a dubitare sulla veridicità dei fatti da sempre narrati dalla nonna, ma anche dell’intera sua vita. Convincendolo di essere in cresciuto in una famiglia costruita su fandonie, create ad hoc da una donna delusa da un vivere fatto di bandoli sospesi di “avrebbe potuto essere” ed invece non sono stati.
Ma la vita, è noto, non lascia nulla di sospeso o di intentato e avere una nonna millantatrice alla fine ha un motivo e un valore nel suo essere, perché è innegabile:
“La vita tradisce, e si riduce a un racconto”
a una storia. Nel suo essere narrata, magari arricchita di particolari veri, veritieri o presunti, riesce ad essere accettata, compresa, capita e per quanto possibile rimodulata.
Così a quarant'anni, con un romanzo di un discreto successo all'attivo, un altro da scrivere, una fallita storia d’amore con figlia, un'altra, con Giulia, in “trattativa” e con un lavoro da redattore stagnante, il nipote di Teresa fa il passo che mai avrebbe pensato di poter fare.
Fa pronunciare a Sandro Pertini la frase da lui scritta:
“L’amore è l’essenza della libertà”.
Parole mai dette da suddetto Presidente, ma talmente veritiere, da poter essere assunte a vere.
Con un atto semplicistico e semplice, diventa un Fake writer: il Piserchia millantatore degli anni 2000 e oltre.
Con naturalezza riprovevole, il suo atto si rivela inaspettato fulcro e scoperta del vero motivo del millantare di Teresa. E in una sera tiepida, di quelle che solo a Roma ci sono, camminando nel silenzio nell'ampio viale che conduce a casa, sotto braccio al nipote Teresa, non del tutto opaca di quell'Alzheimer che fa dimenticare il se vissuto, sussurra
“Prima o poi sulla luna ci andrò, e troverò tutti lì ad aspettarmi.”
Errico Buonanno non è nuovo tra le mie letture. La sua forma scritta, sempre piacevole, da sempre trasporta il lettore in dimensioni parallele del reale, surreali (a volte) ma sempre veritiere.
Una capacità che lo ha portato a risultati editoriali sempre pregevoli in romanzi (come Lotta di classe al terzo piano del 2014 o Falso Natale. Bufale, storie e leggende della festa più importante dell'anno 2018) e come autore radiofonico (nota la sua collaborazione con Chiara Gambarale e Flavio Insinna) e televisivo (è nella redazione di Massimo Gramellini). Non stupisce, perciò che questo suo ultimo lavoro, sia entrato nella rosa dei titoli del premio Strega 2020.
Nelle pagine di &220;TERESA SULLA LUNA&221;, però, c’è qualcosa di più, di diverso, declinato in due linee e narrative parallele e sovrapponibili: il valore salvifico del racconto; la necessità di partire da un prima per tracciare e creare il nostro nuovo poi.
In una parola, la ricerca di quelle radici che fanno di noi persone e che inevitabilmente trovano humus fidato nella famiglia: perchè da lì proveniamo, da lì abbiamo origine e fine.
Teresa a modo suo, nel suo essere il piccolo sole dell’intero romanzo, ricopre entrambe questi aspetti: salvezza e incipit per un “andare avanti” sempre convito.
La sua freschezza e schiettezza palesano da subito obiettivo e scopo del suo personaggio: preservare e conservare ciò che ha di più caro &220;la sua famiglia&221;.
Il vivere del suo “gruppo di persone” (tra ombre e difficoltà) potrebbe indebolire ognuno dei suoi componenti: ed allora vola con le parole, facendo diventare debolezze e scivolature, appigli di forza. Collante necessario alla sopravvivenza sua e di chi vuole bene.
A suo modo fa del raccontare, una linfa necessaria e irrinunciabile, dove rimpianti e rimorsi sono solo parole e non condizioni del vivere, scelte da dover fare ai mille bivi della vita.
Attimi in cui destreggiarsi tra gli ostacoli, con abilità e maestria, facendo delle sconfitte, degli insuccessi e anche dei traguardi raggiunti, vivi momenti di nuovi inizi ed obiettivi.
Così facendo si potrà, persino, arrivare alla Luna.
Unico astro degno di pregio, poiché sussurra all’uomo la capacità di narrare e rendere viva la poesia delle nostre esistenze. Che diventano, così, utile appiglio per nutrire l’anima, salvandola dai ciechi cinismi del mondo.
E sollevando, distratti, gli angoli della bocca in un triste sorriso, nel momento del ricordo o del lutto di quello o quell'altro parente, ci augureremo di essere anche noi ricordati e raccontati in una eternità che non stanca, ma rende e vittoriosi …
“ Sul tempo, sul vivere e anche sul nostro morire”