“Foglie d’erba”, balsamo per i nostri tempi
- 3 Gennaio 2020
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La nuova e definitiva edizione del capolavoro del poeta americano nei Meridiani Mondadori
Se fossi un recensore serio (posto che i recensori siano seri), dovrei illustrarvi in un buon ordine pregi ed eventualmente difetti della prima, unica e definitiva edizione delle Foglie d'erba, pubblicata ormai due anni fa dalla Mondadori nell'elegantissima collana dei Meridiani (per la modica cifra di 80 carte assai ben tossite). Un'edizione che mette cervello e cuore in pace ai seguaci di Walt Whitman e, si spera, alla critica. Ma non lo farò, almeno non subito. Proverò invece a dirvi un paio di cosette su Whitman, con il vivo augurio, a me e a voi, di riuscire a conquistargli giusto quella manciata di lettori che ancora poco o nulla conoscono uno dei due o tre massimi veri poeti dell'era moderna.
La prima volta in cui sentii parlare di lui avevo all'incirca sedici anni. Mi stavo spupazzando tutta l'opera di Cesare Pavese e scopersi che questi si era laureato sul poeta americano, di fatto presentandolo per la prima volta agli italiani. All'epoca, davvero lontanissima, ero troppo giovane, impreparato e distratto da altre faccende per mettergli gli occhi addosso. E Whitman scomparve dal mio orizzonte, abbastanza offeso. Vi ritornò qualche mese dopo attraverso L'attimo fuggente, uno dei più bei film con Robin Williams («O Capitano! mio Capitano!», ricordate?), ma ancora una volta: era presto e proseguii per la mia strada, anche se iniziavo a percepire che una spina mi si era infilata in un dito, proprio sotto l'unghia.
La terza volta ne sentii parlare da una buddhista statunitense, sostenitrice del Partito democratico e una delle figure più profonde e stimolanti della televisione occidentale, vale a dire Lisa Simpson (sì, quella Lisa Simpson). A quel punto, direte voi, mi sarò già fiondato in libreria o in biblioteca e ci avrò dato dentro. Niente da fare, anche se la spina era penetrata qualche millimetro più a fondo. Sinché essa non decise di scomparire del tutto nelle mie carni per colpa di Ananda K. Coomaraswamy, uno degli autori del giro così detto tradizionalista. Coomaraswamy, che scrive soprattutto di arte sacra e spiritualità occidentale e orientale, cita assai sovente Whitman e assai sovente accostandolo, oltreché all'altro mostro William Blake, ai grandi metafisici come ad esempio Lao Tze e certi indiani, oppure a Nietzsche, annettendolo volentieri e pensatamente al Pantheon di quegli scrittori universali, che si sono proposti il compitino da nulla di rendere questo mondo un po' meno miserabile e spazzare via le nuvole nere che così spesso si stagliano al nostro orizzonte.
So bene che il vecchio Walt mi bacchetterebbe le dita per aver parlato di mondo miserabile, o almeno mi inviterebbe a compiere qualche distinzione e a spiegarmi meglio. È questo infatti uno dei doni di Whitman. Egli è davvero uno di quei rari mistici che compie il sovrumano, letteralmente sovrumano atto di vedere la realtà scomposta nei suoi vari frammenti, nelle sue foglie d'erba, e di vedere bensì nel prato la foglia, ma nella foglia tutto il prato, dentro, sopra e attorno, e persino chi lo abitò e chi un giorno lo abiterà, uomo o animale o insetto che sia. E non vede, con realismo e chiaroveggenza insieme, tutto ciò come separato e lontano da se stesso, no. Whitman vede, o sarebbe forse meglio dire sente lì, qui e dappertutto se stesso. E se stesso ovunque. E quella foglia e quel prato non sono soltanto foglia e prato, bensì simboli dell'esistenza tutta intera.
Non so e non mi interessa sapere se Whitman abbia conquistato questa sorta di stato di grazia a prezzo di dure fatiche, violentando la propria natura, oppure se sia nato così o se a un certo punto della sua vita abbia subito per magia una trasformazione, e da semplice uomo si sia tramutato in un mistico, ossia in un poeta. Quel che conta è il risultato. Ad esempio questo: «Volgendomi all'indietro vedo come ai vecchi tempi io/arrancassi nella nebbia con retori e sofisti,/Non derido e non discuto, testimonio e attendo». Oppure questo: «Io trovo incorporati in me gneiss, carbone, muschio dai/lunghi filamenti, frutti, grani, radici succulente,/E sono tutto decorato di quadrupedi e di uccelli,/E a ragione ho preso le distanze da ciò che mi sta alle spalle,/Ma che posso richiamare indietro a mio piacimento». Ascoltate ancora quest'altro: «Vagando col pensiero intorno all'Universo, vidi il poco/che c'è di Bene avanzare costante verso l'immortalità,/E tutta quella vastità che chiamiamo Male la vidi affannata/a sciogliersi su se stessa fino a perdersi e a morire».
Ho – vi prego di credermi – piluccato a caso, ma quasi dappertutto Whitman realizza un'aspirazione che di tanto in tanto fa capolino qua e là sulla terra: i sufi la chiamano uomo universale e Nietzsche Übermensch e altri non lo nominano mai – come Whitman – ma la sanno e la mostrano. Può essere un ideale irrealizzabile e non condivisibile, persino sfrontato: vallo a dire a un minatore della Sierra pelada o a un malato di cancro, di godere di tutto e che la vita è meravigliosa. Un poco poetico ma altrettanto sincero vaffanculo sarebbe il minimo. Eppure il fatto stesso di poterci elevare almeno con la mente, ad esempio attraverso Whitman, quando siamo nel pantano, beh, come diceva quella pubblicità: non ha prezzo. E non ha prezzo perché le cose stanno esattamente come le spiega un altro gigante del nostro tempo, Arthur Schopenhauer. Amaramente ma veracemente afferma che la gioia e la felicità sono soltanto negative, ossia appaiono quando, per caso, si allontana per un momento la doppia, costante realtà della vita umana: il dolore e la noia.
Ora però qualche parola su questa edizione debbo pur spenderla. Già che sia un Meridiano costituisce molto spesso una garanzia, anche se non sempre. In questo caso sì. Il volume – milleseicento e rotte pagine – è curato da Mario Corona, storico esperto whitmaniano, o whitmaniaco, visto da quanti decenni si occupa del poeta americano. A mio giudizio la traduzione non è sempre appropriata; ma c'è il testo originale a fronte; eppoi, santo cielo, avercene di traduttori di poesia come lui. Corona ha anche il pregio, raro per un accademico, di non imbarbosire il lettore con lungagnate prefatorie inutili e scialbe. La sua introduzione – che già dal titolo promette bene: «La gallina furtiva e il gatto dalla coda troppo lunga» – è ricca di informazioni, fluente e dimostra grande rispetto per Whitman, uomo e poeta. L'apparato critico, oltreché essere poderoso, ha contenuti notevoli, ad esempio un pratico indice dei titoli e dei capoversi in doppia lingua. Insieme all'introduzione risulta essere uno strumento davvero utile per chi voglia scavare nella vita e nella poetica dell'autore, senza indugiare troppo in stucchevoli tecnicismi. Tuttavia, se mi posso permettere, il mio suggerimento è di accantonare per un momento la critica e all’inizio leggere Whitman senza alcun ausilio di stampelle intellettuali e contemplare quei versi per come vi arrivano. Insomma, leggete Whitman come se guardaste delle foglie d'erba.